La Storia

1978: è passata una decina d’anni dal cambio della guardia ai vertici della FIAT, dalla fine dell’era Valletta, e sono stati anni difficili; forse i più difficili di sempre.

Sono stati anni di rivoluzione e crisi petrolifera, di gestione maldestra delle risorse aziendali, di lotte operaie e di eliminazione cruenta dei dirigenti, di spese che superano gli utili, di tentativi di recupero troppo disordinati per funzionare…
Sono stati anni settanta. Anche per “la più potente industria italiana”.

Ma sembra finalmente che qualcosa stia cambiando: le forme delle automobili sono in rapida evoluzione, in tutta Europa; sono già nate la Golf di Giugiaro ed una Renault 14 con cui il destino è stato davvero troppo ingrato, e la FIAT si inserisce, a onor del vero con lieve ritardo, nel loro segmento e con gli stessi argomenti. E con un prodotto che in seguito si rivelerà concretamente valido.

La Ritmo emerge da quegli anni bui grazie ad una meccanica a tutta prova e a un disegno inconfondibile; la 128, obsoleta berlina dalle doti stradali insuperate e sul mercato da quasi due lustri, deve gradualmente lasciare il passo a qualcosa di più polivalente; e lo fa cedendole una meccanica “salvaspazio” ancora moderna e vincente: motori superquadri ad albero in testa comandato da cinghia, silenziosi e ben più allegri dei ticchettanti “aste e bilancieri” di cui era dotata la maggior parte della concorrenza, trazione anteriore e schema sospensivo a quattro ruote indipendenti, una chicca in un’epoca di ponti rigidi e retrotreni interconnessi.
Bisognava inventare una macchina che non fosse proprio quella che disegna un bambino, che fosse interessante anche da guardare; e possibilmente ancor più pratica. Ma che conservasse soluzioni tecniche già conosciute e viste mille volte anche dal meccanico sotto casa. E già che ci siamo, che utilizzasse il più possibile quel meraviglioso polimero inventato dall’uomo che è la plastica; ne utilizzasse tanta, ché “fa calore” entrare in una macchina che finalmente non lascia scoperto neppure un fazzoletto di lamiera al suo interno, in tempi in cui gli interni della maggior parte della produzione sono freddini e poco accoglienti, scarni, impersonali…
Una macchina che sia comoda e spaziosa, silenziosa, pratica; ma anche robusta ed affidabile grazie alla sua semplicità. Ed anche economica.
Sembrerebbe una macchina senza difetti; ed invece per qualcuno fu, al contrario, una macchina senza pregi: è risaputo che ciò che deve andare bene per tutto alla fin fine non va bene per niente.
E Quattroruote non la aiutò ad eccellere: “promossa senza lode”, ci ricorda oggi, dopo venticinque anni, la consorella Ruoteclassiche nella rubrica dedicata alle cenerentole.


Ma la Ritmo fu l’auto dei primati; dei primati veri, quelli che contano: ultima FIAT progettata sulla base di uno studio formale, fu disegnata, dentro e fuori, dal centro stile di Boano; si racconta che quando fu presentata in prova ad Enzo Ferrari, questi scese sconcertato dagli interni e chiese “Che cos’è tutto questo imballaggio?”.
Eppure quel nome aveva già identificato in passato alcune tra le più belle Rosse di Maranello…
Con i suoi cinquantuno litri di serbatoio fu la prima a fare Milano-Napoli con un pieno: non era male!
Per un po’ di tempo fu anche la più silenziosa; e si rivelò la più sicura nelle severe prove di crash americane: le produzioni locale e giapponese non riuscivano ad eguagliarne i risultati, né le si avvicinava la Golf.
Le vendite? Basta dire che è stata l’unica “reginetta” di classe non strettamente utilitaria: nessuna “segmento C” aveva detenuto prima di lei la palma di più amata dagli italiani, e nessuna la detenne dopo; interruppe orgogliosamente e non per poche settimane il primato della 127 e che fu anche della 600, per abdicare solo alla Panda e più tardi alla Uno, automobili che non hanno bisogno di presentazioni e che riconfermarono definitivamente la preferenza degli italiani per le piccole.
Nella sua versione più sportiva, la 2000 Abarth, non aveva concorrenti nella sua classe di appartenenza quanto ad accelerazione e ripresa: non esisteva una Alfa Romeo che si avvicinasse ai suoi otto secondi netti sullo zero-cento, né che scendesse sotto i trenta sul chilometro da fermo; il minimo per starle dietro (e dietro vuol dire non sempre davanti…) portava il cognome Porsche!

E non si può ignorare il significato profondamente umano che nel bene e nel male ha avuto questa automobile, pensata per non lasciare indifferenti e che oggi nessuno sembra aver dimenticato del tutto: pubblicizzata come costruita a mano dai robot fu forse la principale responsabile delle crisi occupazionali in fabbrica a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta. In pratica sarebbe bastata meno della metà degli operai effettivamente impiegati per costruirla, grazie alla sua estrema razionalità progettuale, un vantaggio-svantaggio per il padrone come per il dipendente, che si rifletté per tutta la sua vita commerciale sulla qualità dei materiali e dei montaggi e sulla politica dei prezzi.
Chiunque abbia memoria delle dispute di quegli anni, infatti, non può non ricordare il morbo dell’”optional imposto”, che affliggeva gran parte della produzione: non era sporadico ritrovarsi a non poter fare a meno di pagare un tergilunotto non voluto o un contagiri non ordinato, o perché facente parte di un “pacchetto” improbabile o perché semplicemente “uscivano tutte così”.
Ecco, allora, che il prezzo di listino, apparentemente appetibile, diventava in breve tempo svantaggioso rispetto alla concorrenza, vanificando quella sensazione illusoria di poter realizzare un risparmio concreto scegliendo una FIAT piuttosto che una straniera.
E la Ritmo, purtroppo, non fece eccezione a questa regola: nonostante il suo prezzo di listino si mantenesse al momento del lancio tra i quattro milioni e mezzo e i cinque, superati solo dalla 75 CL automatica, e fosse grossomodo allineato con quello delle concorrenti più significative (Citroën GS, Renault 14 e Volkswagen Golf), era facile che lievitasse anche senza la preferenza del cliente per alcun accessorio; un problema comune anche alle Alfa Romeo ed, in misura leggermente minore, alle Lancia, e ancora presente alla fine del 1981, quando il prezzo delle Ritmo normali andava da 6.767.000 e 8.337.000 lire, e quando ormai erano arrivate anche la Escort e la Kadett rinnovate, anche loro, finalmente, a due volumi e trazione anteriore, e pertanto temibili concorrenti.

Oggi vederne una non è infrequente, soprattutto al sud e in special modo nei piccoli centri, ma si tratta per lo più di esemplari in cattivo stato di conservazione e utilizzati come “auto da soma” quando non già pollai o cucce; decimate mediamente quindicenni dai primi incentivi alla rottamazione, le prime serie sono ormai davvero rare, specie le più anziane, quelle che un tempo sfoggiavano con orgoglio colori accesi che le facevano somigliare a grandi giocattoli: Azzurro Rodi, Verde Kent, Arancio Messico, Rame…

Oggi che di lei si è detto tutto e il contrario di tutto, ma spesso si dimentica che è stata la macchina di tutti: che dire di un modello che ha venduto oltre 1.300.000 esemplari dal ’78 all”82 senza derivate? Nessuna giardinetta, nessuna coupé o integrale, nessuna tre volumi; solo una decappottabile semiartigianale dai numeri di produzione assolutamente trascurabili.
Tre o cinque porte. E basta. Questa era la scelta.
Ed evidentemente bastava: “potete scegliere” recitava orgoglioso il dépliant (negli anni settanta, oggi sarebbe una brochure…) della Ritmo; “tre o cinque porte, quattro e cinque marce, manuale o automatica, rossa, verde, azzurra o blu…” Potete scegliere!
“Ritmo di forme, Ritmo di funzioni…”
Erano poche, ma c’erano tutte, e bastavano; perché non erano virtuali, come le cento varianti di un modello odierno: è facile chiamare cinque macchine diverse con lo stesso nome; difficile fu, invece, un anno più tardi, avere il coraggio di chiamare Regata la Nuova Ritmo “trivolumizzata”!

Per il resto la storia di questa controversa tuttofare italiana è uguale a quella di mille altre: presentata inizialmente con tre motori, 1100 da 60 cavalli, 1300 da 65 e 1500 da 75 (solo automatica) e due livelli di allestimento, Lusso e Confort Lusso, ha visto il progressivo allargamento della gamma dapprima verso il basso, con l’adozione del “1050 Brasile” sulla versione più economica, in seguito del 1700 Diesel e del 1600 bialbero per la sportiva “105 TC”; contemporaneamente venivano introdotte le varianti “Super”, nelle cilindrate 1300 e 1500, arricchite nell’allestimento e con potenze aumentate di dieci cavalli rispetto alla corrispondente versione normale; la “Ritmo 75”, nel frattempo, era diventata anche manuale, mentre la Diesel era disponibile solo a cinque porte, almeno sul mercato interno; la serie speciale “Targa Oro” su base 65 (75 per alcuni mercati esteri) aumentava le possibilità di scelta della motorizzazione considerata più adatta ed equilibrata, collocandosi, in configurazione a tre e cinque porte, tra la CL e la Super.
I consumi furono sempre un suo punto di forza: la 65 1300 risultò parca come se non più della 1100, e le fu preferita da parecchi acquirenti per via del limite di velocità in autostrada, differenziato per cilindrate e che nella fattispecie permetteva medie più elevate; con percorrenze comprese tra i 10 km/l in percorso cittadino e gli oltre 15 su statale, era difficile scendere sotto i 12 anche in autostrada e montagna, un risultato che valeva bene un 50% in più di bollo ed una assicurazione più cara, anche a fronte di prestazioni migliori; cinque cavalli ed un po’ di coppia che facevano la differenza!
Nel primo biennio fu messa a punto una infinita serie di migliorie grandi e piccole, dal servofreno al ventilatore interno centrifugo, ed il colore degli interni fu mutato da tinta unita cognac o celeste carta da zucchero e cruscotto unificato lontra in due combinazioni a due toni di marrone o blu con cruscotto coordinato; più tardi anche la gamma delle tinte per la carrozzeria perse la sua audacia sbarazzina in favore di colori di gusto più maturo.
Con il 1981 il disegno dei sedili e delle pannellature perde definitivamente la personalità iniziale, per semplificarsi in nome di una minore pretenziosità, e lo specchio retrovisivo esterno trapezoidale lascia il posto ad un fin troppo convenzionale sostituto; la Ritmo, tuttavia, resta sempre inconfondibile, con le sue poche modifiche esterne di dettaglio, e conserva fino alla fine i suoi strani cerchioni ed i suoi criticatissimi interruttori “a botticella”, nonché le sue maniglie tonde definite da qualcuno più adatte ad un elettrodomestico.
Così come fino alla fine conserva la possibilità, offerta fin dall’inizio, un altro primato, di montare come accessorio a pagamento il condizionatore d’aria sulle cilindrate di 1300 e 1500 cc.
Per ultime arriveranno la “125 TC” Abarth, una sportivona decisamente superiore alla diretta concorrenza, la prima FIAT dell’era Ghidella e da lui fortemente voluta per dimostrare “che macchine siamo capaci di fare”, e la decappottabile, realizzata dalla Bertone su base Super 85 e acquistabile attraverso la sua rete di vendita con la denominazione “Cabrio”.
La prima era in effetti una bomba, la cui più tarda variante a due carburatori doppio corpo orizzontali, la Nuova Ritmo 130 TC, restò per lungo tempo il limite da battere; la seconda conservava anche chiusa una certa grazia estetica, mentre scoperta costringeva a rinunciare al bagagliaio. In comune hanno oggi la scarsa reperibilità sul mercato dell’usato (…storico?), derivante dalla minima produzione e dalla loro tutt’altro che nobile estrazione sociale, ma sono senz’altro macchine piacevoli ed esclusive, nel senso più puro del termine: ormai sono pochissime.

Perché conservarne una, o addirittura due?
Perché non costa che i pochi euro di ogni “autostorica”, perché si ripara con il fil di ferro, perché i ricambi di meccanica si trovano tutti e costano una miseria; perché è un’ottima macchina “da battaglia” e in caso di foratura non costringe a rotolarsi per terra o vuotare il bagagliaio; perché in un’automobile meno cose ci sono e meno se ne rompono…
Ma sicuramente per il suo valore estetico: si tratta forse di uno degli ultimi e senz’altro del più forte esempio di design del suo periodo, e nemmeno la Delta, che seguì di lì a poco, né la Panda riescono a godere della stessa compiutezza; definita in più di un’occasione “scompensata” o “inutilmente manierata”, ha sicuramente il pregio di restare inconfondibile: da qualsiasi angolazione la si osservi e di qualsiasi particolare distintivo (basti pensare ai paraurti) la si voglia privare, sarà sempre impossibile non capire “che macchina è”; perfino il tetto, con quel suo caratteristico accenno di spoiler, se considerato da solo è immediatamente riconoscibile senza ombra di dubbio.
Se poi volessimo valutare in senso stretto la scuola che può aver fatto, beh, provate un po’ a osservare con attenzione alcuni stilemi, per esempio, della Twingo o della 206: scoprirete inaspettate analogie con i tratti somatici di questa vecchia FIAT, pioniera delle rincorse tra il tondo e il teso, dei giochi di asimmetria; della ricerca del nuovo di cui c’era bisogno.
In due parole perché è una macchina da gran collezione.

Ritmo… “Famose”? L’aneddotica, specialmente cinematografica, è ricca di apparizioni in cui dimostra di essere estremamente telegenica, ad ulteriore conferma di quel valore estetico di cui abbiamo parlato poc’anzi…
Ricordiamo quella dell’esercito che Montesano strapazza in circuito per dimostrare quanto vale al volante, nel film di Verdone “I due carabinieri”; quella con cui, ne “La bella vita” di Paolo Virzì, gli amici corrono al matrimonio di Claudio Bigagli e Sabrina Ferilli dopo aver chiesto in prestito una Golf senza ottenerla: “la solita figura da morti di fame!”; quella “azzurro aviazione” soltanto nominata da Giulio Scarpati in “Cuori al verde”; l’arcinota cabriolet di “Non ci resta che piangere”: la macchina del tempo all’italiana!
Ancora quella dell’incredibile Nedo in “Ovosodo”, ancora di Virzì, e quella, trasformata in alcova, del mediocre “Volevo i pantaloni”; quella del commissario Trentini e del brigadiere Gargiulo in “Delitto a Porta Romana”, celeberrima avventura dell’allora maresciallo Nico Giraldi, a sua volta dotato di una 130 Abarth nel successivo “Delitto in formula uno”.
La decappottabile rosso corallo di una radiosa Eleonora Giorgi in “Grand Hotel Excelsior” o la Nuova Ritmo pubblica di Alberto Sordi ne “Il tassinaro”, più tutte le “comparse”: di nuovo in livrea blu esercito in “Amici miei – Atto secondo” alle calcagna di quattro buontemponi dopo lo scherzo della Torre di Pisa, autocivetta da speronamento ne “Il bambino e il poliziotto” ancora di Verdone, taxi notturno nei vicoli di Roma ne “Il muro di gomma” o “targata Cartagine” in “Yuppies – Giovani di successo”; vettura personale del Dott. Diego Abatantuono, psichiatra, in “Strana la vita” di Giuseppe Bertolucci.
Perfino quella del nostro ottimo Franco Malerba, di professione astronauta, con cui una notte cadde in un fiume: il giorno successivo, ben “scolata”, ripartì al primo colpo, ed il nostro simpatico eroe, all’ultimo aggiornamento, non se ne era ancora liberato…

Perché allora non darle il suo più che meritato angolo di gloria tra le pagine di questo Sito, finalmente disposto a riconoscerle il merito di aver lasciato un segno indelebile nella storia dell’Auto Italiana?



Dedicato a tutti quei ferrivecchi che non ne possono più di vedere strada.

Autore Francesco Carducci